Dalla Comuinicazione al Giornalismo Digitale

I motivi per cui un blog viene scritto sono disparati, molto spesso persino contrastanti tra di loro. Quello di oggi non è un post di informazione (la "i" minuscola è d'obbligo in una sede come questa): quello di oggi è un post di reindirizzamento, perché se è vero che l'incomunicabile si cela dietro al primo cespuglio a sinistra nella via della Comunicazione, ritengo sia altrettanto vero che parte di esso sia giunto a passi lunghi e ben distesi nel giornalismo, nell'info-snacking, nella partecipazione al mondo di chi, per professione, dovrebbe o vorrebbe fare il giornalista.

Leggendo alcune riflessioni di studenti di un corso di informatica, applicata al giornalismo naturalmente, dell'Università di Parma, ho trovato che molti "sognano", per usare un verbo tanto inflazionato quanto dal sapore evocativo, di lavorare nell'editoria, nel mondo dei giornali, in prima linea tra coloro che combattono la guerra quotidiana della diffusione del Fatto, questo sì con la lettera maiuscola.

Interessante che "il Fatto" sia anche il titolo di una nota trasmissione televisiva Rai che va in onda ogni giorno sul secondo canale nazionale, condotto da una prorompente e quantomeno autoritaria giornalista convertita allo showbiz... Interessante perché il fatto molto spesso è più "fatto" di quanto si pensi, è molto più ritoccato a suon di Photoshop e "mentine anti-alito" di quanto si possa pensare.

Questo post introduce un nuovo aspetto dell'incomunicabilità odierna, quello di un giornalismo invischiato fino al collo nella politica, di un mondo dell'informazione dove la vera merce non sono i fatti, ma le provvidenze, dove la conoscenza di qualcuno conta spesso più di qualcosa e dove molti, come gli studenti di Parma, sognano di poter cambiare le cose. Non comunicare è il nuovo modo di comunicare anche nell'informazione, e se non ci si crede solo a sentirselo dire, si dia un'occhiata al sito di Repubblica (www.repubblica.it) e si vedrà comparire in alto, prima di tutte le notizie, un bello schermone con una farfalla lcd, pronta a spiccare il volo. Naturalmente, pubblicità.

Il lettore di un quotidiano, interessato ai fatti, viene irretito inconsapevolmente in un circuito dove la notizia è l'esca e la pubblicità è il vero fine. Ma tutto come se non stesse accadendo, la "pubblicità trasparente". E poi, per i più impavidi che scorrono la pagina fino alle notizie, ecco apparire il nuovo "giornalismo digitale": decine di piccoli trafiletti da poche righe, privi di retorica, sfoggio di un italiano forbito o l'approfondimento tipico del giornalismo cosiddetto "tradizionale". E allora il nuovo lettore di giornali si trasforma in uno zapper, trasformazione ben lontana dagli intenti di Scalfari nel 1976 quando fondò la versione cartacea di Repubblica, ma ben distante anche dal pionieristico tentativo de l'Unione Sarda che, per prima in Italia a metà anni '90 (prima anche de Il Manifesto), aveva realizzato la versione "digitale" della propria testata.

Ecco perché il mio intento non è quello di essere giornalista e poi osservatore della realtà, bensì è quello di essere studioso e poi giornalista. Senza vera conoscenza, raramente si giunge alla selezione di ciò che è significativo e ciò che tace la realtà delle cose, ammesso che ce ne sia una. "Acqua in bocca" dunque, perché ora, senza troppo catastrofismo, la non comunicazione passa alla non informazione. O almeno questa è l'impressione che dà il mondo del giornalismo cosiddetto "partecipativo" agli occhi di uno studente inesperto e curioso della vita.

"La religione del dio-communus"

Non comunicare è possibile, se il concetto di comunicazione viene snaturato dalla sua accezione originale. Non ascoltare, scegliere un canale alternativo, usare codici non compatibili, usare violenza verbale o fisica per interrompere l'interazione: sono tanti i modi per non comunicare nella società digitale (persino trasporre la comunicazione reale su un piano virtuale esclude una fetta di interazioni comunicative).

Allora la società della Comunicazione dovrebbe domandarsi quale sia l'elemento ricorrente che la rende così simile alle società precedenti: d'altronde, non è la Comunicazione di oggi esattamente com'era la Scienza di ieri, l'Urbanistica dell'altro ieri e la Filosofia di tre giorni fa? Siamo di fronte a una fase, niente di più. Una fase dove il concetto del comunicare è il nuovo "dio terreno", la nuova religione che cambia la variabile, ma non il sistema. Prima ci renderemo conto che comunicare è sì vitale, ma non infallibile, e prima potremo arrivare alla conclusione che è inutile continuare a cercare l'arché dei fisici naturalisti greci ancora oggi, a distanza di così tanti secoli.

"Emo-zionati"

Alla voce "Emo", l'enciclopedia online più consultata dai giovani al mondo, Wikipedia, recita così:

"Il termine Emo (o Emo-core) si riferisce ad un genere musicale inizialmente compreso all'interno del punk rock, ed è perciò considerato un suo sottogenere[2]. Tuttavia, nella sua evoluzione più moderna, il genere include anche sonorità di tipo melodico orientate all'indie rock e all'alternative rock. [...] A metà anni novanta, il termine emo iniziò ad essere usato per indicare la scena musicale indie [...] La scena "indie-emo" sopravvisse fino alla fine degli anni novanta, quando molte bands appartenenti ad essa si sciolsero o indirizzarono la propria musica verso territori più mainstream. Come fecero le ultime band indie-emo, anche le nuove leve strizzarono l'occhio al mainstream, creando uno stile musicale che ha introdotto il termine emo nella cultura popolare. Se in passato il termine emo era usato per descrivere una grande varietà di band, ai giorni nostri il termine ha assunto un significato ancora più ampio, non necessariamente indicativo di un preciso genere musicale."

Ma poi, sempre alla stessa voce, specifica anche la componente estetica di riconoscimento di un "emo":

"L'emo è spesso associato ad un certo tipo di moda relativa all'abbigliamento skate. Attualmente, sia i ragazzi che le ragazze usano spesso jeans stretti ed aderenti, hanno una lunga frangia asimmetrica in testa e gli occhi truccati di nero. Sono frequenti t-shirt aderenti raffiguranti le band preferite, cintura con le borchie colorate con tonalità accese, scarpe da skater o in generale scarpe nere, Converse o Vans.[...]"

[Fonte: it.wikipedia.com]





A chiarire meglio le idee è allora il Corriere della sera, nella sua versione online in un articolo del 07 Luglio 2006, argomentando, tra le varie informazioni, il senso di un'inquietante tendenza alla depressione e all'isolamento, nascosto dietro ad un'apparente pacificità:

"CONTROVERSIE -
Insomma «emo-zioni» forti, ma anche controverse. Se tra molti giovani, infatti, la sottocultura «emo» pare sia ritenuta una «cosa da sfigati», o da «viziati che hanno tutto e che si creano dal nulla problemi enormi per farsi commiserare», secondo uno studio dell'Università del Michigan, «gli emoboy» sarebbero invece ragazzi considerati gentili e fedeli, affidabili e comprensivi, di cui le ragazze andrebbero pazze. Altro che «sfigati» insomma, casomai neo-maschi antitetici al modello «macho tenebroso ed egocentrico», capaci di scrivere poesie e di inviarle per posta (non via internet) e di anticipare i desideri della propria partner. Nuova specie di neo-romantico finto trascurato, con look a base di t-shirt vintage, jeans invecchiati e capelli spettinati. (si veda anche l'articolo del Corriere della Sera: «Per le donne l'uomo nuovo è übersexual»)
[...]
CODICI CULTURALI - Soprattutto musica insomma. Almeno così parrebbe. Ma se si legge il «tentativo di inchiesta» di Michele Kirsch sul giornale inglese si capisce che la faccenda è un po’ più complessa («Nessuno mi risponde mai quando chiedo che cos’è emo»), e si evince che il termine indica qualcosa probabilmente di più sfuggente, fatto di atteggiamenti, convergenze virtuali, abbigliamento e, magari, antidepressivi."

Gli Emo sono tutto e il contrario di tutto, sono un compendio di indeterminatezza che ben traduce l'incapacità di vedere una prospettiva chiara, che si ispira ad un'identificazione a-politica, non ideologica, non tradizionalista, non old-fashioned: è l'ambiguità di un movimento che non vuole essere decifrato, perché nell'ambiguità ha costruito il suo rifugio dal pessimismo cosmico che i tempi attuali non hanno saputo abbellire. Non comunicare è il modo scelto dagli Emo per farlo, ma al di fuori di quei sistemi che i media impongono dall'alto. Ecco la risposta a chi ritiene gli Emo privi di una ragione d'essere.

"Facebook Society"

Con i suoi 150 milioni di utenti dichiarati e l'aumento del dato in termini "esponenziali", Facebook si conferma allo stato attuale delle cose una piattaforma che fa della comunicazione il fulcro delle sue attività, trasposizione virtuale dei rapporti sociali "reali" (o potenzialmente tali).

A Tatami, trasmissione di successo della seconda serata di RaiTre, una portavoce di Facebook parla del sito come di un luogo in cui comunicare le proprie informazioni a persone per le quali si prova affetto, come in una conversazione privata svolta a telefono o in un incontro face-to-face. Aggiunge poi che questo è il motivo per cui talvolta i contenuti pubblicati sono controversi, ma comunque soggetti a controlli di "filtro", che impediscono la formazione di profili-fantoccio o di paraorganizzazioni di stampo mafioso. Ovviamente a farne le spese è la privacy.

Ma su Facebook non ci sono solo i "comuni mortali", bensì anche le persone che più contano al mondo, dal nostrano Berlusconi fino a Bill Gates. Anzi no, perché Mr Gates, dopo aver sperimentato l'alluvione di messaggi e richieste d'amicizia al suo profilo, ha deciso di chiuderlo e ritirarsi ad una più moderata "vita virtuale".

Si tratta di una nuova forma di comunicazione, o Facebook è solo l'evidente conseguenza della perdita del senso della comunicazione nella realtà? Potrebbe esserci, sotto la maschera di una società online parallela, una verità di incomunicabilità tra esseri umani tutti affiancati ma separati l'uno dall'altro? La tendenza a passare più tempo davanti al pc che a contatto con i nostri simili sembrerebbe suggerire la seconda delle ipotesi.


"Il Grande Fratello Show"

Ma le liti non sono nuove per il sistema mediatico: la tv, quel piccolo oggetto nato nel 1923 e diventato oggetto "di massa" per eccellenza, ci ha abituati negli anni al fenomeno del trash in tutte le sue forme. Prima con il passaggio di scanzonate ragazzine in abiti succinti, poi con l'ammiccante pubblicità di un "silicone sigillante" che tutto può sigillare tranne, a quanto pare, la veste della procace protagonista, infine con i talent show, dove talento fa rima con battaglia all'ultima sanguinosa danza, ed i reality show, che della vita "ordinaria" fanno l'ingrediente principale. Ma se nella ricetta Reality la noiosa, tormentata routine degli abitanti "della Casa" aveva scaldato l'audience nelle prime edizioni del Grande Fratello, il format nel tempo ha perso gran parte di quel suo smalto, inducendo gli efferati machiavellici autori ad ideare una vera e propria macchina di "vere emozioni", quelle conclamate da un concorrente proprio del Big Brother made in Italy in un momento di collera furiosa dovuto alla mancanza di sigarette.

E così si sviluppò, sull'imbrunire del segnale analogico in Italia un settore televisivo tutto dedicato alle ombrose sensazioni forti, quelle che proprio non puoi trattenere, quelle che si vedono solo così, dalla lacrimuccia che spunta sul viso. E quante cose avrebbe capito Bobby Solo dalle miriadi di lacrime sul viso che si susseguono nella tv delle passioni, in quella delle "carrambate" e dei videomessaggi racchiusi in una gigante busta che si apre e chiude a seconda del tumulto emotivo del ricevente su canale 5...

Ma in tutto questo, l'incomunicabilità dove sta? Anche qui, nell'elusione del dialogo. Perché se da un lato è facilissimo esprimere la commozione, se non la tristezza disperata, dall'altra è altrettanto semplice cadere nell'esuberante spirale della rabbia, mista ad uno strano stato psichico. Una dimostrazione? Ancora una volta lo specchio della società, ancora una volta lo show "griffato" Grande Fratello.


"Cusumano vs. Barbato, e il Parlamento s'accende..."

La lite in Parlamento tra due esponenti politici del nostro Paese rappresenta un esempio di come l'incomunicabilità, l'elusione del dialogo e lo sprigionarsi in reazioni-limite (prima la lite fisica, poi il malore), facciano parte persino delle forme più complesse e raffinate della comunicazione, quelle auliche proprie della diplomazia. A tal proposito, La Stampa propone un resoconto dell'accaduto, reperibile online alla data 24 Gennaio 2008, sul sito della testata, di cui di seguito è riproposto un estratto:

"Il senatore dell’Udeur Nuccio Cusumano darà la sua fiducia al governo di Romano Prodi, a differenza dei suoi colleghi di partito. Lo ha annunciato nell’aula del Senato. «Io scelgo in solitudine, - ha detto - scelgo con la mia libertà e la mia coerenza, senza prigionie politiche ma con la prigionia delle mie idee, della mia probità, scelgo per il Paese, scelgo per la fiducia a Romano Prodi e al suo governo». «Barbato gli ha sputato in faccia e Cusumano si è sentito male. Si è messo a piangere ed è svenuto». Così Sergio De Gregorio, uscendo dall’aula del Senato, racconta ai cronisti quello che è accaduto in Aula. «Pezzo di m...te lo vengo a dire in Aula..». Questo l’urlo che il senatore dell’Udeur Tommaso Barbato ha rivolto, correndo per rientrare in Aula a palazzo Madama, al collega di partito Nuccio Cusumano, che aveva preso la parola confermando che voterà la fiducia al premier Romano Prodi. Subito dopo le invettive del capogruppo dell’Udeur, Cusumano si è sentito male e il presidente del Senato Franco Marini ha sospeso la seduta per 5 minuti."

La Stampa, nella stessa pagina del sito, raccoglie poi altre testimonianze sulla vicenda, dalle dirette voci di chi era presente o era interessato:

"Barbato: non ho sputato a Cusumano. «Non ho sputato in aula, non l’ho fatto...», ribadisce Barbato ai giornalisti che gli chiedono se era vero, come riferito da alcuni senatori uscendo dall’aula, che aveva sputato a Cusumano e cercato di aggredirlo. «Ho solo cercato di dirgli quello che pensavo, cioè che è un traditore, ma non l’ho aggredito, ero alcuni banchi sotto - spiega Barbato - è un traditore perchè è stato eletto con i voti dell’Udeur, e ora cambia idea e vota la fiducia...». E ancora: «Non l’ho offeso personalmente, non l’ho fatto».

Finocchiaro: barbarica aggressione a Cusumano
«Sono rimasta impressionata dalla barbarica aggressione a Cusumano». Lo dice Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato, a proposito dello scontro in aula tra i senatori Udeur Nuccio Cusumano e Tommaso Barbato. «Si tratta di un fatto brutto e duro da sopportare anche a livello emotivo», conclude."

[Fonte: www.lastampa.it]



"Togliersi tutto...Non ha prezzo"

La pubblicità è un importante specchio di come la società è, di cosa la diverte, cosa la intrattiene o semplicemente di come i detentori del potere vorrebbero convincerla a diventare. La pubblicità dell'ultimo periodo propone una serie infinita di situazioni comunicative, pronte a promettere il bianco più banco che c'è, ad assicurare la tariffa più conveniente o il testimonial più accattivante. Ma tra tutte quelle pubblicità che fanno eco alla necessità del nuovo, del potente, del rapido e dell'efficace, se ne nascondono alcune inquietantemente non comunicative, dove anzi la comunicazione è elusa volontariamente, quasi come se fosse una pratica degna di contemplazione positiva. Ma cosa faremmo noi se fossimo in prima persona in una situazione simile? Se la nostra ragazza, correndoci incontro mentre il treno parte a tutta velocità, ci facesse pensare alle mitiche scene dei film americani degli anni '60, ma poi si rivelasse interessata solo all'orologio che portiamo al polso? E se fossimo a cena con il marito distratto di una vita che per una volta ha rinunciato alla partita per l'anniversario di matrimonio e scoprissimo che così non è?

Non può essere solo una questione di aspettative deluse, DEVE esserci un problema comunicativo, quello per cui "essere in due posti contemporaneamente non ha prezzo", quello per cui l'ubiquità va a braccetto con il materialismo di un soliloquio (ancora una volta) che preferisce perdere un rapporto, "ma non il mio Breil". E la comunicazione? E la promozione dei rapporti interpersonali? Dov'è l'interazione? Dove sono l'ascolto attivo, l'atteggiamento partecipativo, la cooperazione?

"Angoscia e Incomunicabilità"

"Una sera passeggiavo per un sentiero,
da una parte stava la città e sotto di me il fiordo.
Ero stanco e malato.
Mi fermai e guardai al di là del fiordo
-il sole stava tramontando-
le nuvole erano tinte di un rosso sangue.
Sentii un urlo attraversare la natura:
mi sembrò quasi di udirlo.
Dipinsi questo quadro,
dipinsi le nuvole come sangue vero.
I colori stavano urlando."

E.Munch
[Fonte: www.psychomedia.it]

Lìincomunicabilità e l'angoscia, un rapporto interdipendente, spesso spinto fino alla psicopatologia, alla depressione, all'inclinazione facile, troppo facile, che i giovani della generazione "nativa-digitale" lasciano s'impossessi di loro, della loro socialità e della loro voglia di vivere. Un ragazzo di un liceo bergamasco, per la sua prova di maturità, nel 2008, interpreta così il disagio giovanile relativo all'impossibilità angosciosa di mettersi in comunicazione. Questi estratti derivano dal suo video (integrale su YouTube e di fruizione gratuita) dal titolo "Angoscia e Incomunicabilità".


Il soliloquio della violenza.


American History X
Cast: Stacy Keach, Avery Brooks, Fairuza Balk, Jennifer Lien, Elliott Gould, Beverly D'angelo, Edward Furlong, Edward Norton
Regia: Tony Kaye
Genere: Drammatico
Distribuito da: MEDUSA FILM (1999)
Il giovane Danny deve svoglere un tema in classe, e decide di trattare argomenti superficialmente ispirati al Mein Kampf di Hitler. Il preside Sweeney, per punizione, lo obbliga a preparare una relazione sul fratello maggiore Derek, che proprio quel giorno é uscito dal carcere dopo aver scontato alcuni anni per l'omicidio di due ragazzi neri che gli stavano rubando l'automobile. All'epoca del misfatto, Derek ricopriva il ruolo leader di un gruppo giovanile para-nazista che si riconosceva in un'ideologia della violenza razzista, contro ogni forma di diversità.
Danny aspetta con ansia il momento della scarcerazione, così non vede l'ora di mettersi al lavoro con suo fratello, ma ignora che Derek in carcere ha riflettuto su se stesso e ha maturato la convinzione di voler cambiare vita. Sentendo da Derek frasi mai pronunciate prima, Danny passa momenti difficili in preda ad una forte confusione.
Dopo un episodio di violenza durante una festa per il ritorno di Derek, l'ex carcerato e Danny parlano ee alla fine Danny ritiene giusto il pentimento del fratello, decidendo ancora una volta di seguirlo. Ma la mattina dopo, un compagno di scuola di colore, che Danny aveva pesantemente offeso, gli tende un agguato e lo uccide. Derek arriva troppo tardi per salvare il fratello...
[Fonte: it.yahoo.com]

"Das ist ein zu weites Feld" (è un campo troppo vasto), diceva Theodor Fontane attraverso la voce della protagonista del suo romanzo, Effi Briest. Capita infatti, che l'incomunicabilità derivi dall'impossibilità materiale di proseguire il dialogo, con l'elusione volontaria o riflessa dell'interazione. Nel caso di American History X, il dialogo si interrompe bruscamente, senza occasione di replica, schiacciato da un paraverbale ricco di intonazioni ascendenti, climax dispregiativi, violenti messaggi diffamatori che non permettono al feedback di azionare il procedimento circolare dell'autopoiesi comunicativa. In parole più semplici, il dialogo si chiude contro la volontà di una della parti. Ma allora non comunicare, in un mondo come il nostro, non necessariamente è legato alla mediazione delle tecnologie, forse manca ancora quell'elemento fondamentale che rende una comunicazione VERA comunicazione e non mera espressione di sé e del proprio punto di vista. Manca l'ascolto, o meglio, manca l'educazione all'ascolto. Ma ora la riflessione che sorge spontanea è un'altra: la necessità di ascolto è un'innovazione del XX secolo o c'è sempre stata? Se si considera il basso tasso d'alfabetizzazione inversamente proporzionale a quello della violenza dei secoli precedenti, la risposta sembrerebbe essere affermativa.

Scarico immagine

Fai clic sullo sfondo per annullare

Immagine non disponibile

Scarico immagine

Fai clic sullo sfondo per annullare

Immagine non disponibile



"Parla come mangi"




Prima La Musica, Poi Le Parole.
Cast: Anna Bonaiuto, Andrej Chalimon, Jacques Perrin, Barbara Enrichi, Gigio Alberti, Amanda Sandrelli, Giacomo Piperno, Anita Laurenzi, Fernando Maraghini, Rita Polverini
Regia e Sceneggiatura: Fulvio Wetzl
Anno di pubblicazione: 1999
Genere: Drammatico
Il professor Lanfranco vive con la moglie Clara, molto più giovane di lui, in una villa in Toscana ed ha da lei un figlio, Giovanni. Il rapporto tra i due coniugi non è sereno e la moglie è costretta ad abbandonare anche il bambino. Passati 7 anni, Giovanni, trovando il padre morto d'infarto, scappa di casa, ma parla uno strano linguaggio, linguaggio che persino Lanfranco utilizzava quando era in vita: è un misterioso italiano, pieno di enigmi. Dopo aver vagato per la campagna, sale su un autobus per la scuola vicina e, da lì, è portato nell'ospedale del paese.
Qui i medici pensano che quel linguaggio incomprensibile sia la conseguenza di un trauma e cercano di forzarne il cambiamento. Al contrario la psicologa Marina e l'infermiera Elena ritengono che si debba indagare sulla ragione intima di quelle parole, così rapiscono il bambino e lo portano a Volterra, a casa di Elena.
In quella casa Giovanni ha la possibilità di esprimersi con i colori, la gestualità, la musica e finalmente comincia a comunicare,permettendo a Marina di decifrare prgressivamente il suo codice misterioso formato da frasi, legate agli accordi musicali. Marina ricostruisce allora faticosamente gli antefatti della vita di Giovanni, incontra la madre Clara, e insieme tornano nella villa da dove Giovanni è partito.
Dieci anni dopo, Giovanni, ormai adulto, si è trasferito in Francia ma non ha dimenticato quel lontano idioma che ha caratterizzato la sua adolescenza.
[Fonte: it.movies.yahoo.com]



Il film di Weitzl costituisce un esempio azzeccato di come l'incomunicabilità spesso si celi nella lingua che parliamo comunemente. La metafora di un bambino socializzato ad un codice che utilizza gli stessi lemmi dell'italiano, ma che li combina in modo totalmente diverso, induce chiaramente a riflettere su come spesso il vero problema sia l'ascolto. I medici dell'ospedale tentano la rassicurante via della scienza medica, frutto della tradizione e del sapere convenzionato, quello che sì, senza ombra di dubbio, la lingua la sa parlare. Ma cosa significa saper parlare una lingua? Come si può pensare di parlarla correttamente se non si pensa ad altro se non all'autoconferma? Come si comunica senza feedback?
Ai posteri (e ai mediatori interculturali) l'ardua sentenza...

Scarico immagine

Fai clic sullo sfondo per annullare

Immagine non disponibile


"Acqua in bocca" - L'incomunicabilità nell'era della Comunicazione

Come si può non comunicare al giorno d'oggi?
Come può un essere umano, nato in questa parte del pianeta, cresciuto durante la folle corsa all'innovazione e alla novità più potente e rapida, non riuscire a mettersi in contatto con qualcun altro?
Come si fa a non trovare un modo di trasmettere un contenuto, un concetto, un'idea, un'inclinazione, un messaggio alle persone che circondano la vita di ognuno di noi, fisicamente o virtualmente?
Tutti comunichiamo. O forse no.

Questa non è una ricerca, né ha presunzione di attendibilità d'informazione, ma è un semplice esperimento di come il soliloquio del fenomeno "blogging" molto spesso resti la forma di comunicazione che meglio funziona, in un mondo dove la comunicazione stessa è il principio fondatore, l'arché, il filtro con cui è soppesato il singolo valore di ogni cosa. Così come le sfere d'acqua di Talete, trasmettere un messaggio ed interpretarlo è divenuto oggi il principio costitutivo dell'Essere, dove l'Essere è ovviamente chi è in grado di comunicare.

Ma allora cosa succede se non si è in grado di farlo?
Dove va a finire l'Essere che non sa essere?

Ecco di cosa tratta superficialmente, come ben si addice alla forma del blog, questo diario riflessivo, che raccoglie le idee di uno studente di Comunicazione Giornalistica e Pubblicitaria durante la preparazione di un esame. Vediamo dove si può arrivare...